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Policlinico News. Anno 3, n. 1, 1.3.2017

Carlo Mauri: un uomo che ha segnato un’epoca della medicina modenese

Carlo Mauri
Carlo Mauri

Nel numero del 2 del 2015 di questo periodico abbiamo già parlato della scuola di Edoardo Storti dalla quale gemmarono l’Ematologia, l’Immunotrasfusionale e l’Oncologia modenesi. Membro illustre di questa scuola fu Carlo Mauri, nato a Celje (Slovenia) nel 1915 e allievo di Adolfo Ferrata (1880-1946) col quale si laureò a Pavia nel 1939. Nel 1952 seguì Edoardo Storti a Modena e nel 1967 vinse il concorso per la Cattedra di Patologia Medica, essendo prima titolare della Medicina del Lavoro, poi, dal 1969 di Patologia Medica e dal 1978 di Clinica Medica, sino a quando nel 1981 venne chiamato alla Cattedra di Clinica Medica di Pavia. Diresse anche la scuola di specializzazione in Ematologia dell’ateneo modenese.

La sua attività scientifica toccò vari settori di medicina interna e segnatamente l’ematologia, e fu pioniere nella ricerca sulla cinetica delle cellule ematiche normali e leucemiche (condotte sia con un personale test su cellule sopravviventi in culture in vitro, sia con tecniche citoautoradiografiche), nonché per gli studi di citochimica nelle emopatie, nelle lipidosi, nelle mucopolisaccaridosi e per le osservazioni citoautoradiografiche e biochimiche su aspetti metabolici del DNA e RNA e delle proteine istoniche e basiche nelle cellule midollari e linfonodi. Molto noto fu il suo trattato Le malattie del sangue (1958), scritto durante la permanenza modenese e quelle sul Morbo di Hodgkin e linfomi non Hodgkin nel 1979 al Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina Interna. Si è occupato anche di chemioterapia delle leucemie e dei linfomi nonché del trapianto autologo di cellule midollari e staminali in varie patologie tumorali. Nel 1978 formò un gruppo di ricerca sui linfomi, cui parteciparono numerosi centri ematologici italiani, universitari e ospedalieri, embrione di ciò che oggi è il Gruppo Italiano Studi sui Linfomi (GISL) che ancora oggi ha il centro di raccolta dati presso il Dipartimento di Oncologia ed Ematologia del Policlinico.

Il 16 dicembre 2008 ho avuto il privilegio di incontrare il prof. Carlo Mauri che non conoscevo di persona, ma mi era stato segnalato da più parti come memoria storica degli ultimi sessant’anni anni della Facoltà di Medicina dell’Università di Modena. Il 5 giugno del 2009 Carlo Mauri si è spento  a 94 anni proprio al Policlinico, dopo che le sue condizioni di salute erano repentinamente precipitate. L’intervista che segue, quindi, è stata l’ultima concessa dal prof. Mauri. Non dimenticherò mai quella lunga chiacchierata invernale con un uomo cordiale e signorile, che mi incantò per ore svelandomi non solo la storia dell’ematologia italiana, ma anche i particolari di una vita avventurosa che aveva attraversato la Seconda Guerra Mondiale e la difficile ricostruzione post-bellica, sino al grande boom. Come giustamente scrisse la Gazzetta di Modena, “Il prof. Carlo Mauri aveva segnato un’epoca per la facoltà di Medicina e per l’Università come per il S. Agostino prima e il Policlinico poi. Il suo nome come quelli degli illustri colleghi [Coppo, Remaggi, Storti, Gibertini] ha rappresentato una generazione forse irripetibile per la medicina modenese e il nostro Ateneo”. Giustamente l’Ateneo, il 15 gennaio 2011, su impulso dell’Accademia Nazionale di Lettere, Scienze e Arti, ha ricordato questo grande medico con una giornata di studio.
Quella che segue, quindi, è probabilmente l'ultima intervista rilasciata dal prof. Carlo Mauri.

 

L'intervista

La scuola di Edoardo Storti (seduto, col camice). Carlo Mauri è in piedi a sinistra.
La scuola di Edoardo Storti (seduto, col camice). Carlo Mauri è in piedi a sinistra.

Prof. Mauri, Lei si è laureato a Pavia ed in quella sede ha iniziato la sua carriera accademica. Com’è giunto a Modena? Ha trovato atmosfere molto diverse nelle due Facoltà?     Ho conseguito nel 1939 la laurea in Medicina nell’Università di Pavia. Dopo quasi 6 anni di vita militare trascorsi come ufficiale medico in varie zone di operazione ed internato in Germania, nell’autunno 1945 venni accolto come assistente volontario nella Clinica medica di Pavia, nel reparto diretto dal prof. Edoardo Storti, unanimemente considerato allora il delfino del grande Adolfo Ferrata. Nel 1951 Storti venne chiamato dalla Facoltà medica modenese a ricoprire per incarico la cattedra di Patologia medica, vacante per il trasferimento del professor Mario Coppo alla cattedra di Clinica medica, resa a sua volta disponibile per la chiamata del prof. Alessandro Dalla Volta alla clinica di Padova. La proposta di Storti di venire a Modena come suo assistente venne da me subito accolta con entusiasmo. Nel 1952 Storti vinse il concorso per la cattedra modenese ed io fui nominato aiuto e poco dopo ebbi pure l’incarico dell’insegnamento di Medicina del Lavoro. Il passaggio da Pavia a Modena fu sempre considerato da Storti e da me come un evento felice anche se ci impose, nei primi tempi, non poche difficoltà. Sullo sfondo c’è da notare che le due Facoltà mediche, di Pavia e di Modena, erano inserite in situazioni ambientali assai diverse. Pavia era la classica piccola città universitaria, da secoli sede unica di un’istituzione universitaria di tutta la Lombardia. Era dotata di un Policlinico di costruzione relativamente recente, ben attrezzato e ricco di eminenti personalità, nonché di grandi istituti biologici (quello di Patologia generale era stato diretto per anni dal grande Camillo Golgi, l’unico premio Nobel italiano per la medicina). Esistevano infine i collegi storici (Ghislieri, Borromeo) che da secoli raccoglievano il fior fiore della intellighenzia lombarda. Tutta la cittadinanza pavese viveva la vita della sua università. Modena invece era un centro attivissimo di industrie e commerci, dotato da secoli anche di una struttura universitaria che tuttavia – malgrado fosse stata illustrata spesso da docenti di grande valore – non era mai riuscita a decollare pienamente, forse anche per la vicinanza incombente della celebre Università bolognese. Tutta la vita universitaria modenese era stata pertanto caratterizzata dall’alternarsi di periodi fiorenti e altri più modesti. L’insegnamento di medicina risaliva solo ai primi del 1700, con il grande Ramazzini, anch’egli tuttavia migrato ben presto a Padova. Dopo l’Unità, l’Università di Modena era stata considerata di serie B ed i periodi bellici che si sono susseguiti nei primi decenni del ‘900 non avevano certo favorito il consolidarsi in essa di permanenti valide scuole mediche. In questo solco l’arrivo a Modena di Edoardo Storti rappresentò anch’esso un evento importante per la sua non comune personalità umana e scientifica. Egli si propose subito di creare a Modena un centro ematologico, fino allora del tutto assente in questa sede. Per accelerarne la formazione, la via maestra era quella di trapiantare a Modena giovani ematologi provenienti dal grande vivaio pavese. Da qui la mia chiamata immediata, seguita poi da quella di giovani già maturi nell’ambito scientifico: Sergio Perugini (divenuto patologo medico a Pavia e purtroppo morto prematuramente), Maria Soldati, Franco Gobbi e più tardi Ugo Barbieri, Tullio Artusi e Dennis Quaglino, piemontese con curriculum decennale in ematologia a Cambridge e che sarà poi clinico medico a L’Aquila. Tutti destinati a brillanti carriere universitarie ed ospedaliere. La presenza di questo nucleo di ricercatori attivissimi nell’Istituto di Patologia medica suscitò un fiorire di vocazioni alla ricerca scientifica anche tra molti giovani modenesi. Alcuni si avviarono pur essi all’ematologia, altri coltivarono con successo altre branche internistiche specialistiche. Nel primo gruppo devo citare Umberto Torelli e suo fratello Giuseppe (ambedue in seguito cattedratici in ematologia e Umberto poi di Clinica medica sempre a Modena), Vittorio Silingardi (futuro titolare di Oncologia), Edoardo Ascari (che nel 1969 seguirà Storti a Pavia e diventerà successivamente direttore della Clinica Medica pavese), Erasmo Baldini (poi primario del Centro Trasfusionale), Giovanni Emilia divenuto eminente genetista ematologo, Francesco Vaccari(poi primario a Bergamo). Nel secondo gruppo vanno ricordati i cardiologi Pier Luigi Prati, Spalato Signorelli, Antonio Rivi, Alessandro Meriggi nonché Enrico Manzini (futuro titolare di Reumatologia), Egidio Lusvarghi (poi titolare di Nefrologia) Giuseppe  Grossi divenuto esperto primario laboratorista. Le maggiori difficoltà che dovemmo superare furono però di ordine diverso. Anzitutto infelice era la sede dell’Istituto, decentrato rispetto al nucleo maggiore delle cliniche e degli istituti biologici e situata nei granai dei Duchi estensi assieme alla caserma dei pompieri e alla Clinica delle malattie infettive. La Patologia medica era una vera topaia in cui fu difficile svolgere dignitosamente l’attività assistenziale e didattica e quella di ricerca, anche perché l’istituto era privo di ogni elementare sussidio di laboratori e strumenti indispensabili. I primi tempi sotto questo profilo furono veramente duri.

 

Quando venne attuato il trasferimento nel nuovo Policlinico?
   
Nel 1963 cominciò il trasferimento delle cliniche nella nuova sede. Il progetto dell’architetto Rossi risaliva all’inizio degli anni ’30 e non corrispondeva più del tutto alle esigenze di un policlinico moderno. Ne eravamo a conoscenza fin nei dettagli, perché il cordiale e simpatico architetto Rossi convocava ogni anno i direttori delle cliniche (io partecipavo alle sedute con delega di Storti) per sentire commenti e proposte, che però finivano quasi sempre nel nulla, perché le fondamenta erano state erette già alla fine degli anni ’30 e non erano suscettibili di modifiche di qualche rilievo. Comunque il trasferimento venne considerato da tutti come l’arrivo nella Terra Promessa e ci consentì finalmente una possibilità di lavoro più efficiente e sereno.

Nel nuovo Policlinico e negli istituti biologici, costruiti rapidamente negli anni successivi, la ricerca scientifica conobbe un impulso ragguardevole. Se ne ebbe anche un miglioramento dell’assistenza?


Certamente. Per noi clinici, ricerca scientifica, insegnamento e assistenza sono tre aspetti inscindibili nella nostra attività. Ho già fatto cenno al fervore di ricerca sorto nella nostra Patologia Medica, ma analogo evento fu vissuto pure in tutte le altre cliniche e negli istituti biologici, particolarmente nella Clinica medica, nella Clinica pediatrica, in Neurologia e Psichiatria, dopo l’arrivo del validissimo Gildo Gastaldi, erede di una lunga tradizione pavese. In Pneumologia si affermò il bolognese Bianco Mariani, allievo a Roma di Omodei Zorini di scuola pavese.In Clinica Chirurgica il modenese Pezzuoli diede impulso alla chirurgia polmonare e alla cardiaca (allora agli albori) ma purtroppo si trasferì ben presto a Padova e poi a Milano, lasciando tuttavia a Modena validi allievi (Pietri ed altri). Tra i biologi eccelse all’epoca l’avvento della microscopia elettronica con i professori Buffa e Muscatello; nell’Istituto di Igiene sotto la spinta di Romano Olivo fiorì la ricerca nel campo della microbiologia e della virologia. È da segnalare come negli anni ’60 nell’istituto di Patologia medica l’attenzione alla novità, sempre presente in Storti si concretò anche nell’inizio dell’attività trapiantologica midollare come coadiuvante nella terapia delle neoplasie, la prima avviata in Italia per merito di Umberto Torelli e di Vittorio Silingardi. Contemporaneamente fu potenziata l’attività trasfusionale sia nell’AVIS che nel Policlinico con la creazione di un efficiente centro trasfusionale che venne affidato al prof. Baldini. La ricaduta benefica nell’ambito assistenziale fu evidente. Lo testimoniano la sensibile riduzione delle cliniche private a Modena e l’incremento dell’afflusso a Modena di pazienti provenienti da ogni parte d’Italia. Dopo una decina di anni il decollo della Facoltà medica modenese era in pieno sviluppo.


Ci parli della sua esperienza come preside della Facoltà di Medicina


Nel 1969 passai alla cattedra di Patologia medica, quale successore di Storti trasferitosi a Pavia. Dal 1968 fui per qualche anno segretario della Facoltà con i presidi Macciotta ed Olivo e partecipai con loro ai primi tentativi di modernizzare la didattica universitaria, spinti a ciò non solo dalle nostre concezioni personali ma pure dalle istanze che venivano dal movimento studentesco esploso in tutto il mondo a partire dal 1968. Una buona intesa tra i docenti e le frange riformistiche non utopistiche delle schiere studentesche evitò a Modena gli scontri ideologici violenti da un lato e il cedimento dei docenti a richieste non accettabili ai fini del mantenimento della serietà degli studi. La realizzazione concreta delle auspicate innovazioni strutturali negli studi medici si ebbe però solo dopo il 1973 con la promulgazione dei decreti sulle “Riforme urgenti” emanate dal Ministero. Nei 6 anni (1973-1979) in cui ebbi l’onore di presiedere la Facoltà con l’aiuto comprensivo dei colleghi, la collaborazione con i Rettori – tra cui preziosa fu quella con il matematico prof. Giuseppe Gemignani – e con l’appoggio degli assistenti e della parte più illuminata degli studenti, potei così guidare la riforma della facoltà, nelle sue strutture didattiche e nella creazione in forma autonoma di istituti ed insegnamenti specialistici, prima incorporati nell’ambito delle grandi materie secondo gli schemi ottocenteschi. L’innovazione fu condotta razionalmente ed al suo successo contribuì non poco l’appoggio che trovammo pure negli organi direttivi degli istituti ospedalieri. Ricordo con piacere la preziosa intesa che potei stringere in particolare con la Presidente Aude Pacchioni, tesa anch’essa a conseguire tutte le migliorie necessarie per valorizzare l’efficienza delle strutture assistenziali a direzione universitaria od ospedaliera che fossero. L’attuale struttura del Policlinico universitario ancor oggi rispecchia fondamentalmente le concezioni che risalgono a quell’epoca, debitamente e utilmente arricchite dall’esperienza.

 
 
 
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