Azienda Ospedaliera-Universitaria di Modena
 
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Policlinico NewsLetter. Anno 1 n. 1

Viaggio nella storia del dolore

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Oggi è noto che il dolore costituisce un fenomeno patologico, una malattia nella malattia che influisce pesantemente sulla vita delle persone con effetti negativi sulla sfera fisica, psicologica ed emozionale. Esso può compromettere l’autonomia, le relazioni interpersonali, i rapporti familiari, favorendo l’isolamento della persona dal contesto sociale perciò il Servizio sanitario regionale, ritenendo la cura del dolore non soltanto un dovere etico, ma anche l’esempio di una buona pratica clinica, ha adottato il progetto “Ospedale senza dolore”, nato dall’accordo sancito dalla Conferenza Stato - Regioni, il 24 maggio del 2001, con l’obiettivo di cambiare attitudini e comportamenti degli operatori sanitari e dei cittadini nei confronti di un fenomeno – il dolore - a volte sottovalutato e considerato un evento ineluttabile

 

L’uomo impara a leccarsi le ferite
Lo sforzo dell’uomo per lenire o eliminare il dolore è presente da sempre, il dolore infatti è un’esperienza umana universale  legata alla durezza della vita, alla malattia, all’aggressione subita da altri uomini o da animali. Infatti, è legittimo ipotizzare che il manifestarsi del dolore può aver sollevato già negli uomini preistorici inquietudini e interrogativi ed è probabile che dall’attenta osservazione degli animali (specie se prede di caccia)  questi appresero il comportamento di leccarsi le ferite e le parti doloranti. L’istinto ed il ragionamento devono aver poi insegnato a bagnare le ferite con acqua fredda ed a utilizzare rimedi come l’applicazione di cenere ancora calda, ciuffi d’erba  e parti di piante.  Nasce da qui una certa conoscenza delle erbe, quali ad esempio la valeriana o i fiori di papavero selvatico, la loro classificazione secondo gli effetti che le erbe stesse producevano, la specializzazione di alcuni soggetti in particolari ruoli volti alla cura di coloro che erano toccati da affezioni di varia natura. Nel gruppo, cioè, emersero figure di uomini che erano al tempo stesso sacerdoti, stregoni e medici e ad essi venne affidato il potere di invocare, guarire, prevedere; figure più predisposte di altre a svolgere un ruolo di "mediatori" tra la terra e il Cielo, tra il visibile e l'invisibile, capaci di colloquiare (personificazione) con quelle divinità potenti che disponevano della vita e del benessere degli umani poiché la malattia  e il conseguente dolore venivano considerati come eventi causati da una colpa, così come la salute ed il benessere erano considerati premi elargiti dalle divinità.
Il ritrovamento di crani preistorici trapanati anche in più punti (le cui tracce risalgono a circa 100.000 anni fa), fa pensare a rituali che favorissero la fuoriuscita del demone responsabile di un malessere. A questo proposito, è interessante ricordare la teoria secondo la quale i trapanatori Incas erano soliti facilitare l’azione del trapano con la loro saliva contenente cocaina a seguito della continua masticazione delle foglie di coca. Allo stesso modo, in Cina, ove è convinzione che la salute e la malattia siano determinate dall’armonia o meno dei due principi fondamentali, lo Yang (principio maschile) e lo Yin (principio femminile), la farmacologia contava già nel 3500 a. C. oltre 2000 farmaci tra cui il ferro per combattere l’anemia, l’oppio, il solfato di sodio come purgante e un medico popolare cinese, Chyong Chong Can, applicò il metodo di versare la linfa estratta dalle cipolle nell’orecchio come mezzo di intervento immediato in casi improvvisi di morte clinica e nel VI-VII sec. i medici popolari ci-nesi curarono l’epilessia dei bambini con la bruciatura di un vaso sanguigno posto su una certa zona del padiglione auricolare. Nell’antica Cina, a scopo curativo, venivano inserite sostanze di-verse nella cavità nasale, chiamate errini, ossia «lassativi per la testa». I cinesi, inoltre, hanno il merito di avere intuito e scoperto l’esistenza di una fitta rete di canali superficiali che permettono di “comunicare” con l’interno, accelerando o rallentando il funzionamento degli organi stessi. I punti vengono sollecitati in vario modo con l’ago, che dirige il “traffico” energetico: è la tecnica dell’agopuntura, che secondo una leggenda risale al 2690 a.C., ancora largamente praticata con scopi terapeutici ed analgesici (o anche per infliggere torture). Diffusa ampiamente in tutto l’oriente, l’agopuntura si è affacciata più volte in Europa senza tuttavia influenzare il pensiero dei medici occidentali.

Come liberare l’uomo dal malum
Nel corso della storia, dunque, l’uomo, servendosi di pratiche magico-mediche, ha rivolto la sua attenzione a quelle manifesta-zioni del corpo che, con sintomi dolorosi, alteravano l’equilibrio della persona.  Nel più antico ricettario ad oggi noto e risalente al 2250 a.C., vengono riportati consigli sulla cura delle ferite  e del dolore con-seguente: “Lava la piaga del malato con acqua e birra, strofina la parte dolorante con l’impasto (guscio di tartaruga, germogli di naga, sale e senape) poi fregala con olio vegetale e coprila con polvere d’abete”. Di queste pratiche si trova documentazione certa presso gli Assiro-Babilonesi (1792 a.C-323 a.C.) che, nella fase diagnostica as-segnavano un ruolo preponderante all’ispezione del fegato, rite-nuto l’organo più importante in quanto fonte di sangue. A riprova dell’importanza dell’arte medica, nel Codice di Hammurabi vi è una vera e propria serie di norme deontologiche (in cui sono ripor-tati anche compensi e pene per chi esercita questa attività) e la de-scrizione delle pratiche analgesiche che utilizzavano; esse erano piuttosto semplici ma molto efficaci: per raffreddare parti in-fiammate e dolenti si applicava della neve, per praticare interventi chirurgici come la circoncisione, l’evirazione o l’incisione di ascessi si comprimevano le carotidi fino a determinare lipotimia transitoria per ischemia cerebrale.
Il medico-sacerdote  assiro-babilonese aveva a sua disposizione circa 250 principi vegetali fra i quali di sicuro effetto analgesico la cannabis ed il papavero che i Sumeri indicavano con gli ideogrammi Hul=gioia e Gil=pianta e cioè pianta della gioia. La medicina assiro-babilonese ha influenzato grandemente la medicina  egizia, quella ebraica, quella iraniana, quella indiana e tutte le civiltà mediterranee con una serie di scambi e  travasi fra paesi a diverso livello di cultura. La grande abilità farmaceutica degli egizi ( 3000 a.C-1000 a.C.) è ricordata anche nell’Odissea. Nel papiro di Ebers risultano molto precise le indicazioni relative alla terapia ed alle varie forme di confezionamento e di somministrazione di farmaci: polveri, tisane, decotti, macerazioni, pastiglie.  Presso gli egizi esistevano medici specialisti nelle malattie urinarie, nelle patologie delle orecchie, degli occhi e della pelle ed era assai progredita la chirurgia e la sutura delle ferite per le quali operazioni erano largamente usati l’oppio e la canapa indiana; secondo il concetto della eliminazione dei demoni e con essi del dolore erano usati purganti come la senna, la coloquintide e l’olio di ricino che facilitavano le emissioni fecali.  Contro il doloroso morso del coccodrillo (allorché ci si salvava) veniva prescritto un impacco di carne cruda, contro le ustioni era consueta l’applicazione di rane bollite nell’olio, venivano utilizzati pesci elettrici pescati nel Nilo contro i dolori della gotta e artrosici (uso che verrà ripreso dai romani). La civiltà indiana (2500 a.C.-1500 a.C.),  per la cura delle malattie croniche del sistema nervoso, muscoli e scheletro, spesso usava il massaggio medicinale navarakizhi: si lessava del riso in un infu-so di erbe e latte, la massa ottenuta veniva messa in un sacchetto di stoffa; questo veniva poi usato per il massaggio del malato, du-rante il quale il sacchetto stesso veniva intinto, a sua volta, in un infuso di erbe caldo.
La grande conoscenza di erbe medicamento-se, come si evince da queste pratiche, includeva l’uso di analgesi-ci come l’oppio, la cannabis, lo stramonio, l’aconito, il solanum, l’olio di ricino.  Con l’avvento del buddismo in India si diffonde una forma di ateismo che si risolve in una morale del dolore: di dolore è impregnata la vita perciò la liberazione dal dolore si ottiene solo liberandosi dal desiderio di vivere e raggiungendo uno stato di per-fetta pace: il Nirvana. Nella sua lunga e travagliata storia, il popolo ebraico subì due dure cattività, quella assiro-babilonese e quella egiziana, da cui ha indubbiamente assimilato alcune pratiche e l’uso di piante medi-che come l’issopo, il cui olio essenziale ha potere cicatrizzante ed espettorante, e il cedro, usato per fabbricare le pastiglie napoleta-ne per curare disturbi di stomaco, cuore e testa. Ma nella cultura ebraica il concetto di dolore si associa a quello biblico della vo-lontà punitiva divina: Dio, rivolgendosi ad Eva dopo il peccato, ebbe a dire: “Moltiplicherò le doglie delle tue gravidanze: partorirai i figli nel dolore...”; nelle stesse pagine della Bibbia trovano posto descrizioni di intense sofferenze cui il sacerdote cerca di porre rimedio. Ora, se è vero che questo popolo non si è ispirato a quelle divinità mediche salutari o punitive che affollavano gli altri Olimpi delle credenze, è altrettanto vero che ha ritenuto Yahwéh la sola fonte della malattia e della guarigione perciò a Yahwéh il sacerdote, uomo scelto da Dio, si rivolgeva con preghiere per in-vocare protezione e guarigione. Ed è così che ha agito, per inter-posta persona, il medico-sacerdote Isaia che ha curato Ezechia: egli ha guarito il re di Gerusalemme applicando su un’ulcera, pre-sumibilmente maligna, un impacco di fichi per cicatrizzarla. E noto infatti che il decotto dei frutti secchi maturi è un buon emol-liente per le pelli e mucose infiammate, che il lattice è utile per estirpare i porri, calli e verruche e per far scomparire le efelidi.

Un percorso di emancipazione: dal sacerdote-mago al medico

Ippocrate (460-377 a.C.), il più grande medico dell’antichità, ha posto le basi di un’organizzazione razionale della medicina e delle iniziative terapeutiche. Egli, infatti, è il primo ad affermare “nes-suna malattia è più divina o più umana di un’altra, poiché ogni malattia ha una causa naturale e non si produce senza di essa”. Ippocrate, che poco propendeva alla somministrazione di farmaci, sosteneva che il dolore e la malattia derivavano da una discrasia, cioè da una situazione di eccesso o difetto di uno dei 4 umori: sangue, flegma, bile gialla e bile nera, e che la terapia doveva cer-care di equilibrare queste forze (la teoria umorale condizionerà la medicina per tutto il medioevo). I medicamenti comunque noti e da lui usati per lenire il dolore erano il coriandro, la mandragola, la belladonna, il giusquiamo (somministrate per via orale, rettale o sotto forma di cataplasmi) e la sua condotta terapeutica era riassumbile nella prescrizione: ”Primum non nocere, secundum purgare” al fine di ottenere l’eliminazione della  “materia peccans”. Ippocrate, inoltre, usava la spugna soporifera intrisa di mandrago-ra per indurre il sonno: per 3 secoli l’oppio e la spugna soporifera rimasero gli unici rimedi per alleviare il dolore durante gli inter-venti chirurgici. Dopo Ippocrate e il riconoscimento della validità delle sue teorie, si verifica il ritorno ad una certa sacralità nel concetto di medici-na, anche se l’elemento divino è sostituito da quello umano, cioè dalla dottrina (che risale al maestro di Coo) secondo cui il medico è un uomo e la medicina deve essere ricerca continua e disinteres-sata, anche in ambito speculativo. In questa logica rientra il contributo che grandi filosofi come Aristotele e Platone hanno dato alla definizione del dolore e alle pra-tiche mediche.
Secondo Platone (427-347 a.C.) il dolore deriva non solo da sti-moli periferici, ma anche dall’esperienza emotiva dell’anima che ha sede nel cuore, il dolore è essenzialmente la punizione di colui che si è allontanato dalla verità assoluta, quindi un mezzo di puri-ficazione per il raggiungimento del bene. I concetti platonici furono elaborati da Aristotele (384-322 a.C.) il quale considerava il dolore come l’espressione della disarmonia tra l’anima e il corpo, e lo riconduceva a cause prevalentemente organiche; convivere con il proprio dolore, secondo Aristotele, è un atto di coraggio. Egli riconosceva l’esistenza dei 5 sensi: la vista, l’udito, il gusto, l’odorato e il tatto, da questo egli faceva de-rivare le sensazioni dolorose che venivano convogliate al cuore ritenuto il centro di ogni sensazione. La medicina romana ereditò da quella greca  l’impostazione filo-sofica dell’osservazione e del ragionamento nonché i rimedi tradizionali. Nel De re medica, scritto da Celso, vengono riportati i consigli per alleviare il dolore attraverso l’utilizzo delle piante ormai note, mentre per la cura delle ulcere della testa, della cute e soprattutto quelle degli organi genitali la prescrizione era una miscela di  urina mescolata al salnitro. Rilevante fu l’apporto di Galeno (129-200 a.C.) con un originale concetto di dolore secondo cui a quest’ultimo non è solo il sintomo di un male ma è, di per sé, già una malattia; è anche il primo a tentare di classificare le varie possibili graduazioni e caratteristi-che del dolore in lancinante, pungente, pulsante, censivo. Accertata è anche l’usanza, testimoniata tra l’altro da Cicerone, di far bere ai torturati e ai crocefissi pozioni di mandragola.

Un disordine chiamato dolore…

Le invasioni barbariche ed il crollo dell’impero romano aprono un lungo periodo di oscurantismo per la medicina. Con il diffondersi del Cristianesimo, si afferma una nuova conce-zione di dolore e di morte. Il dolore era concepito come conseguenza di un disordine creato dall’uomo rispetto all’ordine creato da Dio, quindi il dolore era lo strumento obbligatorio per arrivare alla salvezza dell’anima e la morte il momento di passaggio alla vera vita. Il valore salvifico della sofferenza domina tutto il Medioevo ove scompare l’uso e il commercio dell’oppio sostituito dagli olii dei santi e dai ceri benedetti; con ciò si diffonde rapidamente presso il popolo la devozione per alcuni santi protettori, anche essi specializzati, come un tempo gli dei, in patologie particolari. La figura del medico viene sostituita da quella del monacus infermarius che dirigeva l’infermeria, istruiva i novizi alla coltivazione e alla conservazione delle piante. Gradatamente i vari Concili vieteranno la pratica assistenziale medica in quanto motivo di abuso, di non rispetto della pudicizia, di evasione dalla Regola.

Dalla magia alla scienza medica

Superata la paura che con l’avvento dell’anno Mille aveva fatto temere la fine del mondo e con la conquista araba delle sponde meridionali del Mediterraneo, inizia un periodo di grande arricchimento intellettuale che apre la fase “pre-universitaria” della medicina, non più appannaggio delle scuole monastiche, e la diffusione di nuove nozioni provenienti dal mondo arabo. Con Avicenna (980-1038 d.C.), arabo appunto e principe dei me-dici, il dolore rientra fra i sintomi di una specifica malattia e va studiato ai fini della diagnosi. Nel suo Canone (dopo 500 anni verrà compreso fra i libri di testo all’università di Vienna), classifica ben 15 forme di dolore e propone come rimedi l’esercizio fi-sico, il calore, il massaggio; dal punto di vista analgesico si servì del ginepro, della camomilla, della ruta, della maggiorana, della lavandola, oltre che della mandragora e dell’oppio.
Dal 1100 al 1300, con la scuola medica di Salerno, il dolore e la malattia tornano ad essere considerati effetti di cause naturali che l’uomo può e deve analizzare e curare. Una importante innovazione viene trovata nel Compendium di magister Salernus, famoso chirurgo: “E’ da rilevare che l’oppio, il giusquiamo e la mandragora producono una profonda sonnolenza, a causa della loro grande umidità, se fate con esse un cataplasma e lo ponete sul luogo dell’incisione esso abolirà completamente la sensibilità per cui il dolore di qualunque specie non viene avverti-to”. Si tratta, quindi, a tutti gli effetti, di un’anestesia topica. Nel Rinascimento scientifico del XVII secolo, l’applicazione del metodo scientifico galileiano a ogni fenomeno, incluso il dolore, consente di indagare razionalmente sulle sue cause per trovarne la spiegazione. In questo senso, siamo comunque debitori a Cartesio della prima teoria organica sulla trasmissione nervosa: quella del “campanello d’allarme” e del ben noto schema del ragazzo e della fiamma “le particelle della fiamma poste vicino al piede, mettono in movimento parti di cute ed esercitano una trazione sul delicato filamento che è attaccato a questa zona di cute. In conseguenza di questo, si apre il poro sul quale termina il filamento, proprio come il tirare l’estremità di una corda che fa suonare il campanel-lo che pende all’altra estremità”. Il meccanismo corporeo responsabile del dolore nell’uomo, era ri-tenuto da Cartesio (1596-1650) inefficace quando dissociato dal-la mente e dall’anima, ed è per questo che Cartesio conclude che gli animali (privi d’anima per definizione) non percepiscono il dolore.

Il metodo analitico

L’Illuminismo prima e il Positivismo poi (rispettivamente sec XVIII e sec XIX),  hanno scardinato la profonda convinzione dell’uomo nell’aldilà, aprendo la strada a profonde modificazioni nella visione del dolore e della morte, eventi che vengono consi-derati come un’ingiustizia, una crudeltà del destino e quindi come nemici della vita  da combattere. Il progresso della medicina in quest’epoca è stato condizionato dalle acquisizioni mutuate da altre scienze come la chimica, la fi-sica, la matematica e dal perfezionamento di strumenti coi quali è stato possibile isolare dalle sostanze tradizionali  alcuni principi attivi. La morfina, ad esempio, è stata isolata nel 1804 da un farmacista di Hannover, Friedrich Wilhelm Serturner, e principalmente uti-lizzata nei tentativi di cura dell’alcolismo e delle patologie a que-sto connesse. Durante la seconda metà dell’800, la morfina è stata massicciamente utilizzata, per le sue proprietà analgesiche, per da-re sollievo ai tanti militari vittime di traumi bellici. Si profila così il mal del soldato, consistente nei diffusi stati di dipendenza in-generati da tale prassi.  Naturalmente i risultati non erano molto soddisfacenti e la mortalità era estremamente elevata, non solo per assenza di norme anti-settiche adeguate, ma anche per la mancanza di protezione dell'organismo dall'aggressione chirurgica (dolore, sanguinamento, paura, stress, ecc.). Anticamente  venivano eseguiti solo interventi d'urgenza senza i quali il rischio di morte era elevatissimo, come ad esempio dre-naggio di ascessi o amputazioni di arti in gangrena e si cercava di ridurre la grande sofferenza dei pazienti  mediante la sommini-strazione di svariate sostanze più o meno efficaci: alcool, hashish, oppio, impacchi di ghiaccio, bloccando la circolazione sanguigna dell'arto con lo scopo di renderlo ischemico o addirittura median-te parziale strangolamento rendendo il paziente incosciente per mancanza di ossigeno al cervello.

Le sostanze

Nel 1796 Priestley e Humphry Davy scoprirono le proprietà anestetiche del protossido d'azoto e dopo altri 20 anni Faraday studiò le caratteristiche anestetiche di un liquido volatile infiamma-bile, l'etere dietilico.  Nonostante i pregi, queste sostanze non vennero impiegate nell'uomo fino alla metà del 1800. Solo nel 1846, al Massachuses General Hospital, William Morton, dentista di Boston, dopo di-versi esperimenti sull'animale e su se stesso, fece la prima dimo-strazione di una anestesia chirurgica con il protossido d'azoto.  Negli anni successivi furono introdotti nell'uso corrente l'etere etilico ed il cloroformio, caratterizzato, rispetto all'etere, da un odore meno sgradevole e dalla non infiammabilità. L'attività anestetica del ciclopropano fu scoperta nel 1929 e nei successivi 30 anni è stato l'anestetico generale più impiegato no-nostante la sua infiammabilità.  Nel 1956 venne introdotto l'alotano, un anestetico non infiamma-bile che rivoluzionò l'anestesia moderna.  Gli anestetici endovenosi furono introdotti nel 1872 con l'impiego del cloralio idrato. Oltre 50 anni dopo John Lundy utilizzò per la prima volta il tio-pentale, un barbiturico ad azione rapida, che è conosciuto anche come "siero della verità" poiché usato in passato negli USA a scopo legale, sfruttando le sue parziali capacità disinibenti.  I miorilassanti o curari, sostanze in grado di rilasciare e paralizzare la muscolatura, furono introdotti in anestesia  molto dopo la loro scoperta. Di origine vegetale, essi venivano già utilizzati dagli Indios dell'America del Sud come veleno sulle punte delle frecce con lo scopo di paralizzare la preda. Il curaro è attivo solo per via iniettiva e non è tossico per via orale, per cui gli animali colpiti potevano essere mangiati. Nella pratica anestesiologica, i miorilasanti, vennero impiegati per la prima volta nel 1942 da Griffith e Johnson per rilassare la muscolatura che in precedenza era solo raggiungibile con livelli di anestesia molto profondi. W.T.G.Morton il 16 ottobre 1846 eseguì al Massachussetts General Hospital di Boston il primo intervento in anestesia Generale: egli liberò per sempre la chi-rurgia dalla sua parte più cruda, il dolo-re, e dimostrò inconsapevolmente che la percezione del dolore dipende dallo stato di coscienza Con lo sguardo proteso in avanti  Con il XX secolo inizia quella straordinaria successione di scoperte che viene raccolta sotto “l‘ombrello” delle neuroscienze e a tut-te le conseguenti tecniche antidolorifiche sempre più sofisticate. Soprattutto il nuovo orientamento dei nostri giorni, che punta alla modulazione della percezione del dolore, sposta l’attenzione sull’interazione cervello-mente e sulla complessità che il fenome-no dolore implica sul piano psicologico e culturale. Infatti, la con-sapevolezza che “l’uomo non viene più visto in modo isolato, solo razionale o solo spirituale, ma piuttosto considerato in modo con-creto come uomo nel mondo” (E. Coreth) rende più accessibile la definizione del modo in cui ciascuno vive e interpreta la propria condizione di dolorante (cronico o non che sia).

Bibliografia
G.BELLUCCI-M.TIENGO, la Storia del dolore
MINUZZO Stefania, Nursing del Dolore, Carrocci editore 2004
SALVADORI Roberto, Il dolore e la sua storia, 2005


Matilde Mantovani
Capo sala Chirurgia della Mano

Matilde andrà in pensione il 30  settembre 2015. Un grazie da parte della Direzione aziendale, della Direzione  Infermieristica e della  redazione del giornale per tutti gli anni trascorsi nel nostro ospedale con  professionalità e l'umanità.


 
 
 
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