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Policlinico NewsLetter. Anno 1 n. 2

La scuola ematologica di Edoardo Storti

Edoardo Storti
Edoardo Storti

Direttore della Patologia Medica modenese dal 1951 al 1969

Edoardo Storti (1909 – 2006) nacque a Corteolona (PV). Fu allievo interno dell’Istituto di Anatomia Comparata di Pavia, diretto da Zavattari e poi della Clinica Medica, diretta da Adolfo Ferrata (1880-1946) che è il caposcuola dell’ematologia italiana assieme a Giovanni Di Guglielmo (1886-1961) a Roma e Ferdinando Micheli (1872-1937) a Torino. Adolfo Ferrata diede all’ematologia notevoli contributi sulla morfologia, la patologia e la clinica del sangue. Storti continuò questi studi, dividendosi tra ricerca ed insegnamento. Trascorse lunghi periodi all’estero, prima in Germania, a Francoforte, nell’Istituto diretto da Volhard, poi a Gottingen. Studiò un anno a Parigi, frequentando gli Istituti di Ematologia e Anatomia. Alla morte di Ferrata, nel 1946, Storti divenne aiuto di Patologia medica. Giovanissimo, vinse la borsa di studio della Lady Tata Foundation, cui seguirono numerosi altri riconoscimenti in Italia e all’estero. Nel 1951 fu chiamato all’Università di Modena prima come incaricato, poi dal 1954 come ordinario di Patologia medica, dove rimase sino al 1969, quando venne chiamato a Pavia, con voto unanime di quella università per guidare la Patologia Medica e dal 1971 la Clinica Medica, che resse sino al 1979 quando andò in pensione e che su sua iniziativa venne intitolata ad Adolfo Ferrata. Storti era “Un professore piccolo, precocemente bianco, riservato”. Era, però, un’autorità dell’Ematologia mondiale tanto che venivano pazienti dagli Stati Uniti per farsi curare da lui.

 

Tra i numerosi studi di Storti, sin dal 1940 si ricorda quello riguardante una rassegna di 157 casi di leucemia che lo portò a concludere: “le leucemie sono processi molto vicini, se non identici, a quelli neoplastici” tesi opposta a quella dello stesso Ferrata, a dimostrazione della grande libertà culturale della scuola pavese. Non è questa la sede per ricordare tutti i contributi scientifici di Edoardo Storti, riassunti perfettamente dal ricordo di Umberto Torelli. Per la storia del Policlinico è certamente da ricordare il Congresso della Società Italiana di Ematologia del 1967 che si tenne a Modena, dove Storti parlò della Mielofibrosi idiopatica. Ancora fondamentali gli studi sul trattamento dell’emofilia mediante l’asportazione della membrana sinoviale, punto di partenza del sanguinamento. Si trattava di una assoluta novità mondiale, un intervento svolto assieme agli ortopedici, che valse a Storti e al suo allievo Edoardo Ascari, nel 1975, l’invito alla Accademia delle Scienze di New York a tenere una relazione su questo argomento. Storti diresse la rivista Haematologia, organo della Società Italiana di Ematologia, di cui era stato presidente nel biennio 1972-73. Nel 1987 gli fu conferito il premio I Maestri della Medicina Italiana. 
Nel marzo del 1983 fondò, assieme agli eredi di Ferrata, a Pavia, la Fondazione Ferrata-Storti, riconosciuta col Decreto del Presidente della Regione Lombardia numero n. 11-R-83 del 2 febbraio 1984. Scopo della Fondazione è promuovere lo studio e la cura delle malattie del sangue.

Con Storti giunsero a Modena Carlo Mauri e Maria Soldati. Nella sua relazione per il conferimento a Storti del titolo di professore Emerito di Clinica Medica all’Università di Pavia, il suo allievo Carlo Mauri scrisse di lui: “Alla sua attività di Maestro, titolo ampiamente riconosciutogli da molte generazioni di allievi e studenti, si è accompagnata un’intensa attività scientifica. A partire dalla sua prima pubblicazione, apparsa nel 1929, sono stati oltre 300 i contributi che Edoardo Storti ha pubblicato”. A questi si aggiunge “il Trattato sulle Malattie del Sangue [...] un classico in campo ematologico”.
Riguardo al professor Storti è affascinante il ricordo dell’allievo Tullio Artusi: “La scuola di Ferrata puntava molto sul rapporto col malato. L’ematologia è una disciplina molto laboratoristica, ma la scuola di Ferrata credeva molto anche nella clinica, tanto che, se il laboratorio dava un risultato mentre l’anamnesi e la visita parlavano un linguaggio diverso, allora si approfondiva la cosa perché il dato clinico aveva un ruolo preminente. Allora era ovviamente lontana la super-specializzazione settoriale di adesso, resa inevitabile dall’esponenziale aumento delle conoscenze scientifiche”. 

Mi piace concludere con uno stralcio del ricordo che di Edoardo Storti ha fatto Umberto Torelli: “Conobbi il prof. Storti quando frequentavo il terzo anno del corso di laurea in Medicina: ero insieme a mio padre, che mi presentò a lui, ed egli mi invitò ad entrare come interno nel suo Istituto [...] Rimase a Modena per quasi vent’anni, svolgendo una intensa attività clinica e riunendo intorno a sé un folto gruppo di allievi, alcuni dei quali continuarono la loro attività nell’Ateneo modenese, mentre altri lo seguirono nella sua trasferta pavese. Nacque così la Scuola ematologica modenese, cui per molti anni affluirono pazienti da ogni parte d’Italia, essendo uno dei centri più qualificati del Paese per la diagnosi e la cura delle emopatie [...] Credo che la naturalezza, la mancanza di ostentazione, la capacità di mettere a suo agio l’interlocutore fossero uno dei principali motivi del suo grandissimo successo come medico ed anche semplicemente come uomo. Devo aggiungere che nel corso degli anni io ho conosciuto molti che l’avevano incontrato per motivi diversi, ma non ho mai trovato nessuno che fosse rimasto deluso o meno soddisfatto di quanto si aspettasse. [...] le sue lezioni erano chiare, semplici [...] Non solo non faceva nulla per apparire brillante, ma giudicava negativamente i colleghi che volevano apparire tali. E questo in perfetto accordo, la sua visione della realtà, una visione dura, senza illusioni, nella quale c’era spazio solo per il lavoro e lo studio, che occuparono interamente la sua vita. Questo, specie dopo che un male incurabile gli portò via la giovane moglie, lasciando un vuoto incolmabile, che egli lamentò per tutto il resto della vita”. Il suo principale lascito alla storia della medicina moderna fu quello di “rimanere sempre aderente alla realtà del malato, di non lasciarsi mai trascinare dal desiderio di trovare la soluzione più facile dei problemi, di rifuggire sempre dall’applicazione di schemi preordinati, di cercare sempre la spiegazione reale di ogni manifestazione clinica”. Trasmise questo insegnamento “con l’esempio costante, con la dimostrazione quotidiana della sua profonda convinzione di vita e di lavoro”.
Anche Giuseppe Torelli ha ricordato il Maestro “Di lui non oserò dir nulla dal punto di vista scientifico, ma ricordo la sua estrema aderenza alla realtà come clinico e didatta: durante il mio esame di Patologia Medica, condotto da lui personalmente ho avuto un momento di difficoltà, perché alla domanda <<perché si rivolge a lei un giovane affetto da meningite?>>, non trovavo la risposta che lui voleva e cioè: <<Perché ha un feroce mal di testa>>, l’elemento base, il mal di testa, di un ricco quadro clinico e laboratoristico, sul quale cercavo di elaborare elucubrazioni sempre più complicate, e lontane dalla banale cefalea. Ripensandoci, anche a distanza di tempo, mi è sempre venuto in mente quel che Gertrud Stein, nella Parigi degli anni ’30 diceva ai suoi giovani amici scrittori americani alle prime armi: A rose is a rose, is a rose, is a rose. Sarei felice se nella mia attività accademica fosse rimasta traccia del principio che la realtà più semplice non va mai tradita.”
Edoardo Storti si è spento a Pavia nel 2006. Il 7 marzo del 2008 gli è stata dedicata l’aula al quarto piano del Padiglione Beccaria nel corso del seminario sulle Esperienze in ematologia sperimentale e clinica.

I Primi trapianti di midollo

Ancora nella sede di via Berengario, Umberto Torelli lavorò assieme a Tullio Artusi ai primi trapianti di midollo. “I primi studi erano stati svolti negli Stati Uniti tra il 1945 e il 1953 e riguardavano gli animali. Gli studi dimostrarono che topi e ratti, colpiti con dosi letali di radiazioni, sopravvivevano se subivano un trapianto di midollo. Gli studiosi americani e britannici   compresero che gli animali sopravvivevano perché le cellule iniettate attecchivano e proliferavano, mentre sino a quel momento si era pensato che il trapianto di midollo si limitasse a stimolare una ripresa delle cellule del ricevente. Questi studi avevano lo scopo di cercare una cura per gli effetti disastrosi delle bombe atomiche sganciate sul Giappone. Non a caso i più importanti centri di Biologia delle radiazioni si trovavano a Los Alamos, in New Mexico, negli stessi laboratori dove era stato sviluppato il progetto Manhattan, che realizzò le prime armi atomiche”. Sulla base di questi studi, Modena fu tra i primi centri al mondo a sperimentare il trapianto sull’uomo. Racconta ancora il prof. Torelli: “Il nostro problema erano i pazienti trattati con chemioterapici che abbassavano il livello di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Questi pazienti erano immunodepressi e quindi ad alto rischio, così si pensò di utilizzare il trapianto per permetter loro di sopravvivere meglio alle cure. A quei tempi ancora si tentava soltanto l’autotrapianto perché non si riusciva a determinare la compatibilità di un donatore estraneo. Il midollo veniva estratto dalle spine iliache, anche se l’intervento si faceva in anestesia locale e non in anestesia generale come oggi. Il midollo veniva poi congelato a -79°C per essere reimpiantato nel paziente dopo che questo era stato sottoposto alla chemioterapia”.
I ricercatori modenesi pubblicarono diversi lavori sull’argomento. Tra questi, spicca quello pubblicato su Minerva Medica, a firma Edoardo Storti, Umberto Torelli, Mario Lenzi. Il raffreddamento veniva ottenuto immergendo le fiale in una miscela di alcool e ghiaccio secco contenuta in un grande vaso di Dewar. La discesa della temperatura era graduale. Anche se oggi le tecnologie sono molto più sofisticate, il principio alla base della procedura è ancora quello sperimentato a Modena negli anni Cinquanta. Le conclusioni del lavoro erano: “oggi è possibile, mediante innesto di una piccola quantità di midollo autologo, determinare la rapida restaurazione della crasi sanguigna”, cioè della giusta composizione del sangue, che permetteva di dosare sia la terapia chemioterapica sia quella radioterapica senza preoccuparsi eccessivamente dei loro effetti collaterali e potendo quindi colpire le neoplasie più voluminose e profonde con dosi massicce. Nonostante i primi incoraggianti risultati, la metodica venne abbandonata perché Università e IOM non vi credettero. I motivi furono soprattutto di sostenibilità economica. Nella sede di via Berengario era impossibile impostare un’attività in ambienti sterili e anche la dotazione tecnologica era insufficiente. Il trapianto di midollo impiega ancora oggi un gran numero di risorse umane e strumentali, che alla fine degli anni Cinquanta non erano sostenibili dall’Amministrazione. Così, questa metodica fu accantonata “Stiamo sempre parlando di autotrapianto”. Ha spiegato ancora Torelli “Il trapianto allogenico si diffuse solo alla fine degli anni Ottanta perché, in mancanza di un’analisi genetica che assicurasse la compatibilità del donatore, il rischio per il ricevente era la Graft versus Host, cioè l’attacco delle cellule del donatore contro quelle dell’ospite già indebolito dalla terapia, una patologia gravissima e spesso mortale”. In sede internazionale i primi successi nei bambini con gravi immunodeficienze congenite arrivarono dieci anni dopo, con trapianto da gemelli identici (tecnica anche questa testata a Modena da Vittorio Silingardi in un caso di aplasia midollare dell’adulto) di una quindicina di anni dopo.

Bibliografia

  • Carlo Mauri, Relazione per il conferimento del titolo di Professore Emerito dell’Università di Pavia al prof. E. Stortiin Cheli (a cura di), La storiacit,pp.170-172. Del prof. Mauri, altra figura di primo piano del Policlinico, avremo modo di parlare in uno dei prossimi numeri del Policlinico News. Al prof. Mauri e alla sua famiglia devo anche l'iimmagine della dedica di Edoardo Storti pubblicata in questa pagina. Ho incontrato professor Tullio Artusi nel settembre 2008. Milanese, classe 1933, Artusi giunse a Modena nel 1958 da Pavia, stessa scuola dove aveva operato il professor Edoardo Storti, e lavorò sino al 2003 per poi restare come cultore della materia. Per dare un’idea dello spessore professionale del prof. Artusi, cito solo un aneddoto, raccontatomi dal dottor Gianluigi Trianni, medico di direzione sanitaria del Policlinico e ai tempi studente. Quando Mario Coppo, uno dei mostri sacri della medicina italiana e forse mondiale, portava un caso clinico in aula soleva dire, se questo era stato seguito da Artusi, che allora la diagnosi era perfetta.
  • Umberto Torelli, Edoardo Storti il ricercatore e il clinico, in Atti dell’Accademia di lettere scienze e arti di Modena, aa. 2005-2006, serie 8, vol. 9, pp. 81-93, spec. p. 81.
  • Giuseppe Torelli, Passato e prospettive dell’Ematologia al Policlinico di Modena, Lectio Magistralis, 28 ottobre 2010 in occasione del VII Meeting del Dipartimento ad Attività Integrata di Oncologia, Ematologia e Patologie dell’Apparato Respiratorio dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena. Ringrazio il prof. Torelli per avermi fornito il testo.
  • Edoardo Storti, Umberto Torelli, Mario Lenzi, Trapianti di Midollo e terapia Antiblastica, in Minerva Medica, vol. 50, n. 74, pp. 2891-2897 (15 settembre 1959).
La scuola di Edoardo StortiLa firma di Edoardo Storti (per gentile concessione della famiglia Mauri)

Gabriele Sorrentino

 
 
 
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